Il voto agli immigrati o della giusta democrazia

Questo mio intervento è uscito sul “manifesto”  il sette settembre.

Non è facile assumere che dalla festa del partito democratico possano emergere obiettivi politici non esposti alla transigenza, intensi almeno nel medio periodo, destinati a radicarsi nell’opinione pubblica. Troppo evidente è il protagonismo della tattica: coltivare le insofferenze di Bossi verso Berlusconi, accendere un cerino polemico tra Fini, i leghisti e i suoi stessi colonnelli a proposito del voto amministrativo agli immigrati, e così via.

Tuttavia a me non piace pensare “contro”. Vorrei con tutta l’anima che quella per il voto aministrativo agli immigrati fosse un battaglia seria.

Per molti motivi. L’immigrazione – nessun politico osa dirlo apertamente ai suoi elettori, ma tutti i demografi lo sanno- è destinata ad aumentare sensibilmente nei prossimi dieci anni, forse addirittura a raddoppiare, quali che siano i proclami dei governi in carica. Dai governi in carica dipenderà solo se sarà più o meno misera, rabbiosa, marginale, dolente e tragicamente odiata. E, quanto a questo, siamo sulla buona strada: temo che abbiamo perso tempo prezioso per quell’adattamento fisiologico al nuovo e al diverso che, dopo gli shock iniziali, ha attenuato il peggio in molti paesi euopei. E i tempi sono più duri rispetto agli anni settanta inglesi, quando in una delle grandi patrie della democrazia europea, comparvero, e poi scomparvero, gli skin heads , il fascista Enoch Powell e le spedizioni puntive contro i pakistani.

Il sentimento di solidarietà, la forza della memoria storica del nostro passato di emigranti, l’esercizio dell’immaginazione verso le sofferenze altrui e la curiosità autentica per modi di vita e tradizioni diverse richiedono cultura, attenzione e consapevolezza. Materia per “ceti medi riflessivi”, o per chi coltiva la sua interiorità in varie forme, spesso in Italia attraverso la pratica cristiana. E gli altri? Quegli ampi strati di popolo delle periferie che la scuola ha tradito, di cui la televisione ha offeso l’intelligenza, che la destra peggiore ha blandito? Quelli, cioè, che temono che smotti definitivamente una faglia sottile che separa la loro aspirazione alla rispettabilità dalla degradazione dei perdenti? Io credo che solo il concetto di cittadinanza può (dico può) fare qualche miracolo. Può restituire dignità, costruire un patto su un piano di parità, saltare oltre gli ostacoli del cuore, e lasciar emergere un’identità sociale che si disegna dentro il perimetro della democrazia. Da pari a pari, senza crediti in bianco, guardandosi per la prima volta da cittadini. Non ci sarebbe bisogno di amare se non se ne hanno le forze, ma solo di sapere che odiare ed essere odiati, a proposito di sicurezza, è molto pericoloso. Poi, da cosa potrà nascere cosa.

Ho vissuto, da assessore al comune di Roma, per ben due volte l’esperienza dell’elezione dei consiglieri aggiunti. Ne ho tratto due lezioni. La prima è che – salvo che nel caso del riequilibrio della rappresentanza fra i sessi, materia che richiede altri criteri di analisi – ogni rappresentanza delimitata, riservata per quote, è molto rischiosa: frammenta le democrazia, crea enclaves di serie b. I consiglieri aggiunti erano cinque, uno per ogni continente, e in ciascun continente la nazionalità più attiva e numericamente più rappresentata, otteneva il suo consigliere. Questo mandato di comunità, unito agli scarsi poteri consultivi, minava alla radice l’autorevolezza degli eletti.

La seconda lezione è che la sinistra italiana soffre della sindrome della “seconda volta”.

Alla “seconda volta” o vuole di più, oppure si è annoiata perchè il giocattolo mediatico ha perso smalto. Così è successso anche per i consiglieri aggiunti. La cosidetta sinistra radicale oppose al rifiuto della sinistra moderata di eleggere con poteri pieni i consiglieri aggiunti, almeno nei municipi, un boicottaggio strisciante del nuovo appuntamento. La cosidetta sinistra moderata forse annusò il clima mutato – eravamo già nl 2006, in piena sindrome da insicurezza – , forse mise altri appuntamenti in cima alla sua agenda. Così, a credere in quell’idea prosaica che la democrazia ha bisogno di politiche d’attuazione e di anime non troppo volatili, restammo quattro gatti spelacchiati. E votarono meno immigrati della prima volta.

E oggi? Riprovare su una piattaforma nuova, universalitstica? Magari. Se ci credessero l’opinione pubblica, le associazioni, i giovani in servizio civile, le comunità di immigrati, le parrocchie, anche la destra lungimirante se esiste. Occorrerebbe una campagna di massa, con gli immigrati che in alcuni casi non hanno mai votato prima nei loro paesi, e più ancora con gli italiani, ovunque, dalle scuole ai luoghi di lavoro. E poi dovrebbero emergere anche delle piattaforme politiche concrete: sulla casa, sulla salute, sull’istruzione, sulla sicurezza come convivenza fra cittadini che partecipano di valori condivisi. E, se nel disegnarle, nell’uscire dal sogni e dagli incubi, nel dedicarsi all’artigianato della politica, si scoprisse che la distanza fra gli immigrati e gli italiani che temono di ricadere nella marginalità non è poi così enorme e che la faglia si può contenere e, chissà, magari richiudere? Non sono più molto sicura che la politica sia bella, ma forse può ancora essere buona, nutrire di qualche senso il nostro agire collettivo.

 

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